A scuola di...

Storia di A. che non crede di poter vincere

Di Miriam Abu Eideh

A. è una ragazza magra, iperattiva, con due occhi mobilissimi e un sorriso contagioso che frequenta l’Istituto Professionale.
A. è fatta a strati. Partendo dallo strato più esterno, quello scanzonato, quello caciarone, quello della battuta debordante dedito alla baldoria, si passa strato dopo strato a quello più interno, quello della profondità di pensiero, della riflessione, della sensibilità.
A. è anche composta da luce e ombra, che di volta in volta prendono il sopravvento l’uno sull’altra e si danno il testimone. Quando è fatta di luce arriva a scuola e percorre il corridoio cantando a squarciagola qualche brano neomelodico o una hit del 1978 dei Ricchi&Poveri (conosce a menadito tutto il repertorio della musica italica nonché regionale campana dagli anni ’60 a oggi, Dio solo sa perché), si fionda in classe e ballonzola da una parte all’altra (lei non cammina, ballonzola) per raccontare alla tale compagna le peripezie della sera prima o per narrare al talaltro compagno dell’ultima rissa tra due gruppi rivali di due paesi diversi, non si ferma un attimo.
“Oh, scusa se esisto ma io vorrei fare lezione eh” la apostrofo, ridendo. Ride anche lei, si mette a sedere e prende il quaderno degli appunti. Durante la lezione partecipa e fa una serie infinita di domande, è curiosa di tutto e ha sempre un aneddoto da raccontare su questo e su quello.

Quando A. è fatta d’ombra il silenzio la precede, entra in aula con il cappuccio della felpa in testa, ha le cuffiette ma non canta alcuna hit di Tommy Riccio o Loretta Goggi, tiene la testa bassa e non saluta nessuno: si mette seduta e rimane così per un po’. Io inizio a spiegare senza dirle niente, tanto lo so che ha i suoi tempi: tra poco prenderà il quaderno e inizierà a scrivere qualcosa di quel che sto spiegando. In quei momenti vorrei dirle che tutto andrà a posto e che non deve preoccuparsi, ma poi mi rendo conto del fatto che io non sono nessuno per garantire cosa andrà o non andrà a posto o per prometterle cose sulle possibili fonti delle sue preoccupazioni, quindi me ne sto zitta, anche perché odio le frasi fatte e odio sentirmi impotente. Dopo un po’ alza la testa, si toglie le cuffie, prende il quaderno, scrive. Forse non arriveranno né domande né aneddoti, ma a me va bene così, basta che sia con noi.
A. è arguta e intelligente, spesso scrive cose molto belle ed è per questo che il collega di Lettere l’ha convinta a partecipare a un concorso su Dante. In questo concorso la o il concorrente deve scegliere una terzina che in qualche modo le o gli sembra significativa e deve dare una motivazione rispetto alla scelta fatta, al perché la terzina appaia significativa per lei o per lui e in che modo la terzina si leghi alla propria vicenda umana. Una roba impegnativa insomma.
A. si è messa giù, ha scelto la terzina e ha presentato la sua motivazione, scavando indietro nel passato e nella sua storia familiare e riportando alla luce ricordi fatti di tepore e dolcezza. Poi si è messa ad aspettare. Noi tutti, in realtà, ci siamo messi ad aspettare, anche se abbiamo iniziato a stressarla solo dopo un po’ e con una certa moderazione.
“Ciao, sai mica nulla del concorso su Dante?”.
“No, prof, nulla. Ma capirai, andranno mica a selezionare la mia terzina!”
“Ah, ok”.
“Bene, aprite il libro a pagina… ah, ma senti tu: il concorso?”.
“Boh, prof, non ne so nulla”.
“Va bene, aspettiamo”.
“Insomma, adesso mi avete rotto, vi metto una serie di note che… ah no, ma aspè, prima avevi detto a una tua compagna che doveva farti i complimenti: è quell’affare su Dante???”
“No, prof, no. Ma secondo lei IO posso vincere questa cosa? Ma va là”.
Secondo lei IO posso vincere qualcosa? Bisogna essere matti per avere un’idea tanto balzana, no?
E invece…
Quando abbiamo saputo, alla spicciolata, che A. aveva vinto il concorso su Dante abbiamo atteso l’ufficializzarsi della notizia e il momento giusto per dirglielo. Ci siamo dati appuntamento in quattro o cinque prof la mattina prescelta, alla prima ora, e abbiamo inscenato una ramanzina alla classe (tanto ci sono abituati).
Siamo entrati con un certo cipiglio e ci siamo messi schierati vicino alla cattedra. La collega di Inglese si è prodotta in un “ORA BASTA, DOVETE VERAMENTE FINIRLA” degno della migliore compagnia di teatro drammatico, mentre noialtri scuotevamo la testa mostrando chi delusione, chi tristezza, chi estremo disprezzo. Poi ci siamo rivolti ad A., che era in fondo alla classe e ci guardava come si guarda un gruppo di matti appena usciti dal manicomio, invitandola a portarsi alla cattedra e prendersi la giusta punizione per le sue malefatte.
“Ma cosa ho fatto???” ha chiesto A. ballonzolando come suo solito.
Allora, in coro, le abbiamo dato la bella notizia: che era arrivata prima al concorso su Dante, avrebbe partecipato a una premiazione e avrebbe preso un trofeo. Lei, che credeva di non poter vincere niente, aveva vinto.
Il nostro HAI VINTO seguito da ululati degni degli ultras dello Shakhtar  Donetsk è risuonato in tutto il corridoio.
E la risata di A. ci ha illuminati tutti.

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