Di Francesco Valecchi
I diversamente giovani, come me, ricorderanno che, a partire dalla metà degli anni ‘80 (e fino alla sua morte), Umberto Eco ha curato una rubrica culturale nell’ultima pagina del settimanale l’Espresso, intitolata “La bustina di Minerva”.

Io, che acquistavo regolarmente il periodico, cominciavo, altrettanto normalmente, a leggerlo da lì. Eco, infatti, mi sorprendeva sempre con delle riflessioni non soltanto acute e puntuali, ma anche cariche di suggestioni creative e spiazzanti, mai banali, che molto spesso invitavano i suoi lettori a guardare il mondo con occhi nuovi e li obbligavano a rivedere punti di vista ritenuti stabili. Nel numero del 13 giugno 1985, il grande semiologo propose le sue riflessioni su una lettera e alcune pagine ciclostilate che gli aveva inviato una professoressa di scuola media di Crusinallo di Omegna (Novara). Ersilia Zamponi, tale era il nome della prof., chiedeva all’autore del Nome della Rosa, un parere su una serie di esercizi-gioco che aveva svolto con i suoi alunni “oltre il programma normale”. Eco, nel suo articolo, la rassicurava, la invitava a svolgerli “nel programma” e le rispondeva così: “Ci lamentiamo che i ragazzi, spendendo ore e ore davanti alla tv (internet non era ancora stato inventato!), non siano più capaci di parlare e usare bene la lingua. Basterebbe insegnargli che con la lingua si può anche giocare. (…) Infatti, se l’insegnante fa rovesciare il senso di una poesia, siamo ben al di là del gioco: perché per rovesciare il senso, occorre prima capirlo, e poi esplorare il vocabolario, ed esercitare il buon senso. (…) Non vedo a che cosa altro debba servire la scuola”.
Ersilia Zamponi pubblicò le sue esperienze scolastiche in un libro, da allora diventato un vero e proprio classico, che già nel titolo contiene un gioco. “I draghi locopei” (che ha il sottotitolo: “Imparare l’italiano con i giochi di parole” – ed. Einaudi, 1986) è, infatti, l’anagramma di “giochi di parole”. Il titolo, faceva rilevare l’autrice nell’introduzione, contiene una parola, i draghi, che evoca un mondo fantastico di miti, leggende e fiabe ed un’altra, locopei, che è una parola inventata, priva di significato proprio e che, “quindi potenzialmente – li contiene tutti”.

Umberto Eco era reduce da una vera e propria impresa: quella della traduzione in lingua italiana del capolavoro di quel “grande artificiere” (così lo chiama Eco) della letteratura francese, che era stato Raymond Queneau (1903 -1976). Gli “Esercizi di stile” (Einaudi, 1983) rappresentano, infatti, nonostante qualche pallido tentativo di imitazione, un esempio unico di gioco linguistico che diventa alta letteratura. Il libro di Queneau in realtà racconta “un episodio di sconcertante banalità” (come afferma lo stesso Eco nell’introduzione all’edizione italiana del libro), che però diventa pretesto per un esercizio sulle potenzialità del linguaggio, in un vero e proprio viaggio tra umorismo, artifici letterari, esercizi di retorica, giochi di parole e di situazione ecc… Così il raccontino semplice semplice di una banale discussione tra due tizi su un tram si trasforma, per ben novantanove volte, diventando di volta involta, metafora, sogno, lettera, comunicato stampa, onomatopea, esercizio di analisi logica, canzone, sonetto, commedia, ecc.; tradotto in linguaggio ampolloso, volgare, maldestro, disinvolto, gastronomico, telegrafico, reazionario; in latino maccheronico, medico, botanico; riscritto con soli dati olfattivi, visivi, uditivi, gustativi, tattili ecc., in un crescendo che mette insieme sorriso e meraviglia, creatività e grandi competenze linguistiche. Del resto, Raymond Queneau era stato, con François Le Lionnais, il fondatore e l’animatore del movimento chiamato OuLiPo (acronimo di Ouvroir de Littérature Potentielle, cioè, Opificio di Letteratura Potenziale), formato da scrittori e matematici, tra cui Italo Calvino e Georges Perec, con lo scopo di ricercare e proporre nuove strutture e schemi come “supporti dell’ispirazione, per così dire, oppure, in un certo senso, un aiuto alla creatività” (in: R. Queneau, Segni, cifre e lettere e altri saggi, ed. Einaudi, Torino, 1981, pag. 56). Se gli Esercizi di stile che, forse, come faceva notare Eco trovavano la loro ispirazione in quel capolavoro di comicità che sono “Le variazioni sul naso di Cyrano” (in: “Cyrano de Bergerac”, di E. Rostand, atto 1, scena IV), rappresentano un esercizio di grande letteratura innovativa, i “Draghi locopei” di E. Zamponi e dei suoi ragazzi costituiscono un esempio di come le ricerche del gruppo dell’OuLiPo possano essere declinati nelle pratiche didattiche e diventare gioco creativo, capace di trasformare la noia dell’esercizio ripetitivo in occasione per fruire, interpretare, riflettere e produrre testi e messaggi, cogliere le strutture profonde del linguaggio e trasformare i ragazzi in ricercatori di nuovi significati, inventori di storie e nomi inediti. L’uomo impara giocando, raccontando (come fruitore e produttore di racconti), scambiando messaggi: in questo esercizio, il pensiero si fa parola, ma la parola, filtrata dall’interpretazione, diventa a sua volta, nuovo pensiero.
Negli esercizi della prof. Zamponi, i nomi e cognomi degli alunni, servono a produrre anagrammi: Paolo Ripamonti diventa “Parla, topino mio!”, Camorcia Nicola scopre di far “Rima in coca cola” ecc., ma anche pseudonimi; la stessa Ersilia Zamponi è Zelia Marispino. Le parole o frasi possono formare testi e quindi “Scuola media” forma: “Educo salami?”; gli anagrammi dei nomi delle squadre di calcio possono servire a realizzare frasi: “Mora, nata alta, allevo in ramo” (Roma, Atalanta, Avellino, Roma); quelli dei proverbi possono essere utilizzati per produrne altri: “Chi tace acconsente”, diventa, “Chi c’è accanto sente”.

Siccome l’appetito vien mangiando e la ricerca e la scoperta di nuovi significati (asse semantico del linguaggio) e di regole di relazione (asse sintattico) sono potenziali occasioni di gioco, si impara a far rime e slogan: “La scuola media Rodari è priva di somari”, “Giuseppe Aiello/ che ruppe l’ombrello, Aiello Giuseppe / nessuno lo seppe”; e ancora, divertendosi con la pubblicità, “Per un ballo guancia a guancia ti consiglio il gusto Arancia”. Un testo può essere rivoltato, rovesciandone il significato, ma seguendo la regola di conservarne struttura e ritmo delle frasi. La poesia “Rio Bo” di A. Palazzeschi, si converte in: “Tre grattacieli/con l’ascensore, il cortile asfaltato/traffico concitato: Rio Ob/una timida ortica …”; “L’Inno di Mameli” subisce una metamorfosi: “Sorelle di Francia/la Francia va a letto/col piede infilato in una ciabatta. È stata sconfitta le chiome si strappa …”; la canzone “Addio mia bella addio” esplicita, in senso antimilitarista: “Bentornato! Il mio bello/ disarmato ritorna/ma se io mi ribello/a lui spuntan le corna …”. Trovare parole, o fumetti (da aggiungere ad immagini prese a caso), giocare a inventare metafore e similitudini (un mio alunno taciturno di 1° elementare in una scuola di montagna, mi sorprese, in un giorno di neve, immaginando: “Questi fiocchi sembrano i paracadute delle formiche”), cercare logogrifi (trovare, dentro una parola altre parole formate con alcune sue lettere), metagrammi (parole che differiscono tra loro per una sola lettera), tautogrammi (frasi le cui parole iniziano tutte con la stessa lettera), catene di parole, acrostici e mesostici, paronomasie (accostare due parole di suono simile o uguale, ma di significato differente come, ad esempio, amore amaro), creare limerick (filastrocca nonsense di 5 versi in rima – schema metrico AABBA -, l’ultimo dei quali riprende il primo), sciarade (cercare o formare una nuova parola mettendo insieme due o tre parole: zucche – rare, bara – onda), lipogrammi (scrivere o riscrivere un testo senza mai usare una determinata lettera), calligrammi (poesie realizzate mediante una composizione le cui parole formano disegni decorativi o figure – vedasi quelli del grande poeta francese G. Apollinaire), rebus, personificazioni ecc., diventano altrettante occasioni per esercizi didattici. Manomettere detti celebri, canzoni, titoli di libri, di film, di slogan pubblicitari, per farne testi nuovi, significa imparare a scoprire nuovi significati, arricchire il lessico e iniziare a distinguere tra la comunicazione faziosa, ridondante o entropica del nostro tempo e la radice della significazione profonda (con buona pace di coloro che temono la creatività).
Ersilia Zamponi era debitrice a Gianni Rodari (vedasi, tra gli altri testi di questo grande pedagogista – poeta, la sua “Grammatica della Fantasia” – Einaudi, Torino, 1973) che aveva re-inventato il mondo della fantasia infantile e a Giampaolo Dossena che, con i suoi libri e le sue rubriche di giochi di parole, in vari quotidiani e riviste, li aveva resi popolari presso un vasto pubblico. Nel 1988 comparve il secondo libro della professoressa, scritto con Roberto Piumini (E. Zamponi e R. Piumini, “Calicanto”, Einaudi, Torino), con l’intento di, come recita il sottotitolo, “mettere la poesia in gioco”. Le poesie, scritte da Piumini (ma nel libro sono presenti anche componimenti di altri autori), ma anche le osservazioni, le letture, gli esercizi proposti fanno del libro “un itinerario possibile per leggere la poesia con attenzione e piacere: un metodo felice di apprendimento che apre alla gratificazione estetica e intellettuale, (e alle) motivazioni più forti, alla lettura personale” (dall’ultima di copertina). Il libro è ancora oggi uno strumento molto valido per iniziare ad affrontare il mondo complesso della poesia e, più genericamente, del testo connotativo, come appassionati fruitori, ma anche, (perché no?), come produttori di opere poetiche.

I libri di Gianni Rodari e di Ersilia Zamponi fecero da apripista ad un’infinità di testi ed esperienze che diedero un contributo importante al rinnovamento dell’insegnamento della lingua italiana. Manuali, ma anche testi da scaricare si possono, oggi, con facilità, reperire in rete. Basta cliccare: “giochi linguistici”, per avere accesso a un’infinità di scelte.
Esistono poi, in proposito, molti libri o raccolte di schede-esercizio. Tra i testi pubblicati, ad esempio, si può fare riferimento al bel volume di Bernard Friot, con illustrazioni di Hervè Tullet (tradotto e adattato, per l’edizione italiana, da Chiara Carminati) e intitolato, “Un anno di poesia”(edizione Lapis, Roma, 2020). Questo libro si presenta come una vera agenda annuale per stimolare il giovane (e il meno giovane) a riflettere sulla poesia, con tanto di invito all’esercizio da svolgere quotidianamente. Ad esempio, l’esercizio, previsto per il 16 aprile, propone una riflessione sulla metafora (che, come dice all’inizio della pagina, Yves Bonnefois “è l’immaginazione che si sbarazza delle sue catene”) e cioè un confronto tra diverse metafore di vari poeti e le consegne di: “scegliere la metafora che ti fa vedere di più” e di cercare “altre metafore tra le poesie della tua antologia”.
Ricordo che, nelle mie attività di tempo pieno, invitavo spesso gli alunni a giocare come i ragazzi di Ersilia Zamponi e rimanevo altrettanto spesso colpito dalla loro capacità d’immaginazione che, senza le restrizioni e gli schemi mentali, a cui spesso siamo costretti dalle nostre abitudini di adulti, davano vita a soluzioni, a volte bizzarre, ma più spesso ancora spiazzanti e creative. Fu all’inizio di uno di quegli anni di insegnamento che mi fu proposto di far parte di un gruppo eterogeneo di persone che si riunivano, gratuitamente, di pomeriggio, presso il monastero Beata Angelina di Foligno assieme ad un gruppo di giovani che erano stati messi insieme grazie a una geniale intuizione dell’assistente sociale Assunta Parziani e dell’ASL locale. Il gruppo, che si era auto-denominato ‘Quelli di via Convento’, si riuniva settimanalmente. All’inizio il compito assegnato consisteva soltanto nello stare insieme in tranquillità, per un paio d’ore, dialogando, raccontando storie, arrangiando canzoni, svolgendo lavori. Ben presto si formò una piccola comunità, la più eterogenea possibile, costituita da ragazzi adolescenti, assistenti sociali, suore, insegnanti e altre persone di diverse professioni e esperienze politiche, culturali, religiose, sociali, il cui compito consisteva in una sorta di reinvenzione della storia di Pinocchio. Alcuni, soprattutto i ragazzi, suonavano e cantavano le canzoni di Edoardo Bennato (dall’album Burattino Senza fili, 1977); il sottoscritto, a cui era stato assegnato il compito di scrivere storie aventi come protagonisti Pinocchio e i personaggi del racconto di Collodi che facessero, in qualche modo, da legame alle canzoni, tutte le settimane preparava una storiella, che poi leggeva nel gruppo. Forte delle letture di Rodari, della Zamponi, di Queneau e degli esercizi che il giornalista G.Dossena proponeva in un supplemento del giornale La stampa, reinventai i personaggi di Collodi cercando di dar loro diverse caratteristiche. Così il falegname Geppetto diventò un sognatore ottimista, che viveva in una bicocca, ma sognava di essere il proprietario di un palazzo principesco, visitato da turisti guidati da un cicerone che ne illustrava le meraviglie e grandiosità. Egli era anche un poeta che pensava di scrivere poesie, nuove e originali, come diceva lui, ma che in realtà produceva solo testi rivoltati.

“Ei fu, com’era piccolo/ dato l’allegro addio/ a scuola se ne andò/ il fanciulletto mio …”, (scriveva quando Pinocchio partiva per la scuola). Oppure: “Il burattino vien dalla campagna/ con la borsa dei libri / e reca in mano …”.
Pinocchio era un monello moderno con una passione per il gioco del flipper e che si esprimeva utilizzando slogan pubblicitari. Il suo colloquio con il tonno, nella pancia del pescecane diventava così: “Lei è il signor Palmera, Rio Mare o Simmenthal? – Filippo, diceva il tonno, mi chiamo Filippo – (…) – Zitto Cirio, e fa come ti dico o ti taglio con un grissino (…). Che bravo! 140 g di bontà in olio d’oliva (…) Vai Maruzzella!”.
La fata utilizzava un linguaggio vintage. Anche lei si serviva di testi rivoltati: “Io son la fata dallo sguardo fine/ Io son colei che muta con un tocco/ Io son colei ch’è di ceruleo crine …”; – e ancora, quando Pinocchio è malato: “Ma su, prendi immantinente il linimento per i tuoi malanni”. Il Butta-dentro del Teatro dei burattini di Mangiafuoco declamava frasi, tanto pompose quanto insensate e ridicole, sulla falsariga di alcuni imbroglioni della TV: “Miei indispensabili uditori! Non sto qui a farvi circoncisa minzione delle grandi difficoltà da me soppressate per comprendere e soggiogare gli artisti presenti all’interno dell’esercizio. Veroo! (…) Prima di prendere cognato da voi, permettete che vi inviti al diurno spettacolo di domani sera che se il tempo sereno minacciasse pioggia, allora lo spettacolo di domani sera sarà posticipato a domattina alle ore 11:00 antimeridiane del pomeriggio. Entrate signori, è tutto gratinato!”. Lucignolo era un monello che parlava esprimendosi con il lessico giovanilese di moda negli anni ‘80 e all’inizio degli anni ‘90. Per convincere Pinocchio a seguirlo nel paese dei balocchi, ad esempio, diceva: “Ehi, Cremino! Che fai lì polleggiato? Vieni con me nel pianeta delle smodosità, nell’universo della mossa, delle macchine virtuali, dello slego. (…) Dai, schiodati! (…) Non sarai mica un ’New Romantic’, per caso?”. Giocando sulle differenze di linguaggio e quindi sulle difficoltà di comunicazione tra generazioni, il vecchio Grillo sfoderava un linguaggio predicatorio e antico: “Non voglio farti tomelle, Pinocchio!…” (e, naturalmente, seguiva tomella, cioè, una predica). L’Omino di Burro era un piazzista romagnolo, come ne vedevo tanti nei mercatini, nei miei soggiorni estivi a Cervia e a Cesenatico, che in realtà voleva trasformare Lucignolo e Pinocchio in videogiochi; il Gatto e La volpe, erano due imbroglioni un po’ cialtroni ecc..
Passarono così diverse settimane e un giorno, all’improvviso, Assunta ci svelò il suo disegno. Non so se lo avesse in mente fin dall’inizio o se l’idea le fosse venuta in seguito. (Un giorno glielo farò confessare). Ci disse che voleva rappresentare il nostro Pinocchio e m’incaricò candidamente di trasformare i miei raccontini in un testo teatrale. Alle mie proteste rispose di non preoccuparmi troppo, poiché il testo sarebbe stato rivisto da un regista.
Fu così che quell’esperienza di gioco, fatta per stare insieme, divenne lo spettacolo “Progetto Pinocchio” e rappresentata due volte nella stessa giornata (la mattina per i bambini delle elementari e la sera per tutti) al Supercinema di Foligno. Regista dello spettacolo fu Walter Romagnoli che adattò il mio testo alla scena, e che ci volle tutti sul palco: suore, insegnanti, assistenti sociali, ragazzi ecc.. Il ruolo di Geppetto fu affidato al grande Albano Bufalini, Pinocchio fu interpretato da Francesca Di Meo. Il sottoscritto svolgeva il ruolo di un Mangiafoco burbero e tonante che costruiva ogni sua frase sparando una serie di parole, sinonimi o dello stesso campo semantico: “Branco di smidollati, ingrati, bricconi, canaglie, delinquenti, cialtroni, carogne, malandrini, banditi, lazzaroni, screanzati, teppisti, farabutti” – urlava ai poveri burattini, che avevano fatto festa, perché avevano riconosciuto Pinocchio tra gli spettatori e che, infuriato con quest’ultimo, ordinava: “Gettatelo nella caldaia subito, bruciatelo, ardetelo, abbrustolitelo, tostatelo, incendiatelo, arrostitelo, cauterizzatelo, rosolatelo, carbonizzatelo!”.
I ragazzi cantavano e suonavano le canzoni di Bennato; tutti gli altri svolgevano i rimanenti ruoli previsti dal copione. Allo spettacolo del mattino assistettero anche i nostri alunni di quarta elementare (io e la mia collega Sandra Magnini eravamo sul palco a recitare) che, dopo l’iniziale meraviglia nel vederci sul palcoscenico, scoppiarono in una risata clamorosa che ci ripagò di ogni fatica e che continuarono a prendermi in giro infarcendo di sinonimi le loro frasi più semplici. I ragazzi che avevano partecipato all’iniziativa, (alcuni, purtroppo, non ci sono più), quando mi incontravano mi dicevano: “Quando scrivi il prossimo testo, fammelo sapere”.
Era il 1993, giusto trent’anni fa. Non feci un seguito. Proprio in quell’anno, ahimè, vinsi un Concorso Nazionale e la mia vita cambiò radicalmente.
Nota: Chi vuole saperne di più sui giochi di parole può vedere, oltre ai titoli indicati sopra (e tra tanti altri), il volume curato da Raffaele Aragona e intitolato “Oplepiana, Dizionario di letteratura potenziale”, (ed. Zanichelli, Bologna, 2007).