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Di Lorenzo capoccia
In foto: la Madonna di Foligno.
Merita senz’altro una menzione particolare la Madonna di Foligno, la celebre pala lignea del signore dei pittori, colui che tutto poteva ritrarre, con maestria tanto divina da far pensare ai propri contemporanei che egli fosse stato in grado di poter vedere nel Regno dei Cieli e di riprodurne la stessa luce, tanta era la “grazia” espressa dalla sua arte. I dipinti di Raffaello sembrano fluttuare in una dimensione a parte. Una sorta di “limbo” luminoso nel quale rimangono sospesi e immutabili e, allo stesso modo dei soggetti che ritraggono, godono di luce propria come astri nel firmamento. La Madonna di Foligno sicuramente non è da meno. Originariamente olio su tavola (poi trasportata su tela) di dimensioni piuttosto grandi (320 x 194 cm) fu dipinta nel 1511-12 ed è contenuta all’interno dei Musei Vaticani.
La data di produzione sembra contrastare abbastanza con lo stile. In quegli anni infatti il pittore era a Roma al servizio del papa del Rinascimento, Giulio II, ed è qui che riuscì a condensare tutte le sue esperienze maturate nel tempo (affreschi nelle Stanze Vaticane). Tuttavia la pala folignate gode di uno schema figurativo più acerbo e scolastico, un omaggio forse ai suoi primi anni di apprendistato, trascorsi in Umbria tra il 1494 e il 1498, nella bottega di Perugia di Pietro Vannucci, detto il Perugino, per il quale sono innegabili i rimandi stilistici.
La storia che riguarda l’ideazione e la realizzazione dell’opera risulta alquanto singolare ed aiuta molto nella comprensione delle varie immagini e dei singoli soggetti.
L’indizio principale arriva direttamente dal committente, Sigismondo de’ Conti, segretario a Roma di Giulio II. Egli era proprietario di un’abitazione, a Foligno, uscita illesa da un evento di non chiara origine (un bolide, un fulmine o un colpo di cannone). Un dettaglio ben visibile al centro dell’opera, poco sopra l’angioletto con la targa di iscrizione, in cui il pittore ha voluto realizzare un piccolo scorcio della città incorniciata da un ampio arcobaleno che fende le nuvole sopra le quali si poggia delicatamente la Madonna col Bambino. Questa è inquadrata in un nimbo luminoso attorno a cui, dalle nuvole azzurrognole, prendono forma dei vaporosi cherubini. Lo schema iconografico della parte superiore del dipinto fa chiaramente riferimento alla
Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, scritta tra 1260 e 1298, in cui si racconta della visione che l’imperatore Augusto avrebbe avuto prima dell’erezione dell’Ara Coeli sul Campidoglio: la Madonna con il Bambino circondata da una splendente luce globulare. L’Umbria assume concretezza fisica più in basso rispetto alla città, con le verdi praterie e le curve dolci delle colline dove serpeggia un sentiero che sembra voler condurre ai vari personaggi ritratti. Partendo da destra possiamo notare inginocchiato e impegnato nella preghiera il committente, Sigismondo de’ Conti, che, vestito alla maniera tipica dei dogi veneziani, volge lo sguardo alla Madonna, omaggiandola per la grazia concessagli. Egli è ritratto di profilo, in primo piano: un linguaggio figurativo tipico riservato alla committenza. Dietro di lui, in piedi, San Girolamo che gli tiene dolcemente la testa con la mano, protettore dei traduttori e uno dei padri della chiesa, riconoscibile dal leone mansueto (a cui, secondo la leggenda, aveva curato le zampe) che fa capolino tutto a destra, dietro al mantello di Sigismondo (la cui mansione in Vaticano era appunto “scriptor apostolicus”). A sinistra invece, anch’egli inginocchiato ed estasiato dalla contemplazione della Madonna, un altro simbolo dell’Umbria, San Francesco, ritratto con indosso le classiche vesti povere da frate e con un crocifisso nella mano sinistra. A concludere la composizione l’unico personaggio a non essere rivolto verso la Madonna, ma verso lo spettatore, San Giovanni Battista. Egli è riconoscibile dalla sua veste tipica in pelo di cammello con un mantello rosso, dal lungo bastone in legno che termina in alto con un crocifisso e dal fatto che è raffigurato mentre indica il cielo e Gesù Cristo. Un gesto che fa riferimento alle sue parole più famose secondo il Vangelo di Giovanni, “Ecce Agnus Dei”.
L’opera è la prima pala d’altare in assoluto realizzata dal pittore e fu inizialmente destinata all’altare maggiore della Basilica di Santa Maria in Aracoeli a Roma, nella cui abside è situata la tomba di Sigismondo de’ Conti. Nel 1565 però, una nipote del committente la fece trasferire a Foligno nella chiesa di Sant’Anna, presso il Monastero delle Contesse della Beata Angelina. L’opera rimase lì fino al 1797, quando gli esperti d’arte di Napoleone vi posero gli occhi e la inserirono nella lista delle opere da trasportare al Louvre. Rimase nel museo francese fino al 1816, dopodiché Canova fece valere i diritti del Congresso di Vienna. Il dipinto tornò in Italia, ma si fermò a Roma diventando parte integrante delle collezioni dei grandi musei nazionali, istituzioni che in quel periodo prendevano sempre più piede.
Dal 18 al 26 gennaio 2014, in collaborazione con i Musei Vaticani, il Comune e la Diocesi di Foligno, Eni ha riportato la Madonna di Foligno nella Chiesa del Monastero di Sant’Anna. Un’ operazione di portata storica che ha condotto il celebre dipinto a Foligno dopo ben 217 anni e a cui il pubblico ha risposto con deciso clamore.
Vocabolario d’arte:
Nimbo: luce intensa e circoscritta, disco luminoso posto sulla testa o intorno a essa, nell’iconografia sacra pagana e quindi cristiana.
Congresso di Vienna: Austria, Spagna, stati tedeschi e Inghilterra ordinarono l’immediata restituzione di tutte le opere sottratte senza alcun negoziato diplomatico, sostenendo come la spoliazione sistematica di opere d’arte è contraria ai principi di giustizia e alle regole della guerra moderna. Canova fu incaricato da parte del Vaticano come addetto speciale al recupero delle opere.
Fonti: NUCCIARELLI Franco Ivan, SEVERINI Giovanna, Raffaello, La Madonna di Foligno, Quattroemme, Perugia, 2007.
V. MERLINI e D. STORTI (a cura di), Raffaello a Milano. La Madonna di Foligno, 24 Ore Cultura, Milano, 2013.