Scuola

Parole – chiave, specchi lontani e illusioni pericolose

Pubblichiamo di seguito la seconda parte dell’ampio contributo di Francesco Valecchi, già Direttore Scolastico del I° Circolo di Foligno, su Jerome Bruner.

La prima antinomia di Jerome Bruner

#ascuoladiuguaglianza
Di Francesco Valecchi
In foto: Lo psicologo statunitense Jerome Bruner


Qual è il fine della scuola? 

Di solito, come risposta alla domanda, vengono subito in mente tre parole-chiave. 

La scuola deve educare, formare, istruire. Che significato hanno i tre verbi che, a volte, sono usati impropriamente, come se fossero sinonimi? 

Educare, secondo l’enciclopedia Treccani on-line,“è il processo attraverso il quale vengono trasmessi ai bambini, o comunque a persone in via di crescita o suscettibili di modifiche nei comportamenti intellettuali e pratici, gli abiti culturali di un gruppo più o meno ampio della società. L’opera educativa è svolta da tutti gli stimoli significativi che raggiungono l’individuo ma, in modo deliberato e organizzato, da istituti sociali naturali (famiglia, clan, nazione etc.) e da istituti appositamente creati (scuole, collegi, centri educativi etc.). La pedagogia moderna indica questi istituti sociali anche con il nome di ambienti di apprendimento formali (scuole), informali (famiglia, televisione, internet, musei ecc.), non formali (luoghi di lavoro associazioni, tempo libero ecc.). Attraverso questi sistemi educativi si svolgono attività di apprendimento che coinvolgono l’individuo durante tutta la sua vita (non si finisce mai di imparare!). Aggiungiamo, per inciso, che l’educazione completa richiede necessariamente il possesso, da parte del soggetto, degli strumenti indispensabili per “valutare secondo propri criteri” (ancora enc. Treccani). 

La parola istruzione “è intesa come padronanza di informazioni e tecniche (per esempio: leggere, scrivere, far di conto, NDA) e acquisita dal soggetto in riferimento a campi specifici di conoscenze e attività”. 

La parola formazione, usata spesso come sinonimo di educazione ha, in realtà, nell’espressione attività formativa un doppio, ben diverso, significato: in quanto può riferirsi sia allo sviluppo dell’uomo in generale (l’Enciclopedia Treccani vi aggiunge in proposito: formazione “del carattere, dell’intelletto, del gusto, del senso morale”), sia all‘acquisizione di una tecnica e di una specifica competenza professionale. Ricordiamo, per inciso, che per pedagogia si intende la riflessione inerente ai problemi e ai fenomeni educativi.

Sul ruolo della scuola si è acceso un dibattito che non accenna a placarsi e la prima antinomia, proposta da Bruner, ne rappresenta la perfetta sintesi. Tale dibattito apre la porta a nuovi interrogativi che coinvolgono lo stesso ruolo della scuola nelle società democratiche di un sistema-mondo dominato da dinamiche complesse.  Ricordo che il primo dilemma che, secondo Bruner, deve affrontare chi si occupa di programmi scolastici potrebbe essere così sintetizzato: Occorre che la scuola curi soprattutto lo sviluppo del singolo individuo (in quello che abbiamo chiamato estremo A), che equivale alla parola educare o al primo dei due significati, impiegati in campo pedagogico, del verbo formare o, (estremo B) che si limiti a trasmettere delle tecniche (cioè a istruire, o formare nel suo secondo significato) per il mantenimento della stabilità e dell’integrità di una società per i fini economici, politici e culturali di questa? Per cercar di rispondere a questa domanda comincerò utilizzando un vecchio (e molto citato) proverbio africano che afferma: “Ci vuole un intero villaggio per far crescere un bambino”. 

Il bambino cresce, infatti, nella relazione con gli altri e tale relazione è parola e simboli, affetti e regole, capacità di argomentare e di ascoltare, acquisizione di abiti culturali e morali, sviluppo del gusto e del carattere, dell’intelletto e delle emozioni, acquisizione di conoscenze, informazioni e tecniche. Che cosa vuol dire far crescere un bambino? Certo, un bambino deve mangiare, bere, essere pulito, coperto, protetto dai pericoli dell’ambiente ecc.. Ma questo non basta: lo fanno anche molte specie di animali. Il bambino del villaggio appartiene alla specie umana e, come essere umano, è in possesso di una mente che si nutre di sensazioni, pensieri, immagini, emozioni: di quelle che lo psichiatra americano D. J. Siegel chiama le S.P.I.E. della mente (). Attraverso queste spie, il bambino alimenta e sviluppa le sue intelligenze (che sono diverse, non una soltanto) e questo cibo si chiama apprendimento. Altra parola-chiave è quindi apprendimento. Il bambino apprende e questa sua capacità gli permette di conseguire, in maniera persistente, modificazioni del suo comportamento e di organizzare e interpretare le informazioni che gli provengono dal mondo esterno e dalla sua mente stessa. L’apprendimento, nell’uomo, avviene, oltre che attraverso l’esperienza diretta (esplorazione, gioco), l’osservazione e l’imitazione di persone, che per lui rappresentano un modello in cui rispecchiarsi, soprattutto attraverso l’acquisizione del linguaggio e dei simboli creati dalla società in cui vive. 

Il villaggio è responsabile dello sviluppo fisico, ma anche mentale del bambino e il gruppo sociale degli adulti che lo compone deve averne cura, affinché il piccolo possa crescere sano, acquisire capacità ed essere utile. Egli rappresenta, infatti, il futuro, cioè la continuità nel tempo del  gruppo stesso e, pertanto, nel piccolo villaggio, dovrà acquisire tecniche per la caccia o per l’agricoltura, il rispetto delle norme che regolano le relazioni tra individui, conoscere gli usi, i miti e le tradizioni ecc.. 

Oggi il villaggio è diventato il mondo e il mondo intero dovrebbe sentirsi responsabile della salute fisica e mentale del singolo bambino. Sarà lui il futuro del mondo e dovrà viverci con le conoscenze, abilità e competenze necessarie per gestire se stesso (e non lasciarsi gestire da altri), sviluppare un proprio pensiero, coltivare affetti e desideri. Dovrà soprattutto comprendere che la qualità della sua vita dipende dal poter star bene con se stesso e con gli altri, in un ambiente, il pianeta Terra, sua unica casa, sano e pulito. 

Nel villaggio-mondo è in gioco il futuro stesso dell’umanità. Anche in questo, per sviluppare le sue potenzialità, un bambino ha bisogno di molte cose e la salute, della sua mente e del suo corpo, dipende da molteplici fattori che devono ricevere la cura degli adulti che si occupano di lui e del mondo che gli ruota intorno. Da quello speciale rapporto con la figura materna, che si chiama attaccamento e che sarà il modello su cui egli costruirà la sua vita affettiva e relazionale, al gruppo di amici, alla scuola, all’ambiente di lavoro ecc., il bambino sarà impegnato in un universo umano che gli deve rispetto e che lui deve imparare a rispettare. La cura del villaggio-mondo del bambino dovrà assicurargli che tutte le dimensioni di cui è costituita la sua persona e quindi la salute del suo dentro, la sua mente, costituita dalle spie di cui sopra, e del suo fuori, il sistema dei suoi affetti e delle sue relazioni, siano curvate alla sua cura. I mondi umani, dai micro (la famiglia, la classe scolastica ecc.) al macro-ambiente (il mondo culturale) in cui vive, devono quindi assicurargli di crescere bene e di sentirsi sicuro ().  Lo sviluppo del bambino ha quindi bisogno di un potente intervento educativo del nuovo villaggio che deve ri-prendere coscienza di questo suo ruolo, e indirizzarlo a fargli acquisire la consapevolezza della propria unicità e della necessità che la difesa della propria libertà sbarri la strada a qualunque tentativo di manipolazione o indottrinamento. 

Oggi sappiamo, e lo constatiamo ogni giorno, che allo sviluppo economico e della qualità di vita, verificatisi dopo il secondo conflitto mondiale in vari paesi del mondo, non ha fatto seguito un altrettanto forte sviluppo culturale. Gli uomini dei secoli XX e XXI sono diventati più ricchi (non tutti, naturalmente), ma non più colti e maturi. Nella loro mente coesistono abilità per utilizzare la tecnologia più avanzata e difficoltà a gestire un apparato emozionale che è ancora quello che l’evoluzione ha realizzato per un essere che vagava, per cercare di soddisfare i suoi bisogni primari, per savane e foreste (basta vedere un talk show o una seduta in Parlamento per capire di cosa sto parlando). Purtroppo le teorie pedagogiche, che hanno ispirato i vari tentativi di riforme della scuola degli ultimi decenni, hanno decisamente fatto spostare l’ago verso l’estremità B dell’antinomia di Bruner .È indubbio, infatti, che a farla da padrona, da alcuni decenni sia stata, infatti, una concezione della scuola di pura matrice istruzionista. Secondo questa concezione, la scuola deve prevalentemente istruire. I fautori di questa concezione risolvono il problema di Bruner convinti (?) che l’educazione passerebbe, filtrerebbe, attraverso le pratiche d’istruzione, in quello che viene definito curricolo implicito, nell’individuo. Qualcuno, in proposito, ha parlato di questa come di una scuola finalizzata unicamente a preparare l’individuo a entrare nel mondo del lavoro come semplice pedina da utilizzare per la partecipazione al gioco della produzione e del consumo.

Le parole educazione e formazione, come sviluppo dell’uomo, sono quindi, nonostante le tante parole, passate in secondo piano; ma l’ipotesi che attraverso la semplice istruzione transiti anche una sana educazione si sta rivelando una pericolosa chimera. Dai tagli finanziari alle croniche carenze strutturali, che la dicono lunga sull’effettivo impegno della politica nei confronti della scuola, si è assistito a una sorta di balletto, anche questo significativo, con la scomparsa anche dell’oretta di educazione civica (sostituita tardivamente con quella alla legalità), la compressione delle ore di storia e geografia e delle stesse giornate di scuola (es.: la settimana corta nelle primarie, senza rientri pomeridiani e senza tenere in alcun conto le soglie di attenzione degli alunni). L’educazione e la formazione, intese come azioni finalizzate allo sviluppo della persona, nonostante le parole, sono state, di fatto, affidate al fantomatico curricolo implicito, all’azione della famiglia e a una non precisata azione della società. Le obiezioni di chi ha fatto notare che così la scuola rinunciava a educare e formare l’uomo si sono scontrate con il muro alzato da coloro che vi hanno opposto il rischio di possibili manipolazioni e indottrinamenti lesivi delle libertà. Tale concezione, che ha le sue sostenitrici nelle tendenze falsamente libertarie del cosiddetto pensiero unico, dominante da alcuni decenni, si sostiene su una visione cognitivista della mente umana che la percepisce come una sorta di macchina. Secondo tale teoria, basterebbe riempire la testa di nozioni e far apprendere le abilità per svolgere un lavoro: il senso della scuola sarebbe tutto qui. 

Ma una testa ben piena non è una testa ben fatta. Lo scriveva un paio di decenni fa Edgar Morin in uno in uno dei suoi più famosi saggi (), riprendendo ciò che aveva intuito e scritto, nei suoi Essais, il filosofo M. De Montaigne (che, da parte sua, aggiungeva che curando solo la testa ben piena non si fanno che asini carichi di libri) circa cinque secoli prima. Se la scuola rinuncia a educare, chi lo fa?  I sistemi non formali o informali? La famiglia? I mass e i New media: abbiamo mai visto la tv o internet? La strada? Tutti questi ambienti di apprendimento dovrebbero, concordemente, definire un piano educativo fondato su valori comuni e sentirsi corresponsabili della crescita del bambino-ragazzo-uomo per farlo sentire integrato e protagonista nella vita del villaggio-mondo. Dovremmo domandarci (e provare a risponderci): Le conoscenze e le esperienze che egli può compiere nel suo ambiente sono finalizzate al suo sviluppo fisico e mentale? Gli esempi auspicabili, che vengono proposti dai sistemi di apprendimento (quelli formali, non formali, informali a cui abbiamo fatto cenno sopra), si riferiscono a modelli di vita positivi? La scuola potenzia, in modo sufficiente, il suo linguaggio e il suo senso critico e costruttivo?

Già mi aspetto l’obiezione di chi mi potrebbe opporre che la libertà e la democrazia non possono avere valori educativi comuni da trasmettere e farmi esempi di stati etici e visioni intolleranti. La realtà è ben diversa. La democrazia si fonda su valori comuni forti, molto forti (la Costituzione e le visioni ideali che la sorreggono), e chi si oppone a una concezione dei sistemi educativi fa solo un servizio alla religione del mercato e alla logica del gioco della produzione e del consumo. Per esempio: le risse da pollaio che si vedono in tv, in cui la pochezza di idee è compensata dalle urla e dalle volgarità, sono modelli positivi da proporre o servono solo a soddisfare, con facili brividi, platee annoiate e ad aumentare l’audience e quindi gli introiti della pubblicità? La visione dell’educazione dell’uomo del secolo XXI non può essere una visione minimalista. Non basta leggere, scrivere e contare e nemmeno saper adoperare i più complicati mezzi della tecnologia. 

Recentemente mi è capitato di rileggere un vecchio classico di sociologia. Nel 1895, nel suo saggio più famoso, Gustave le Bon () scriveva, riflettendo sulla crisi di religione, politica e sociale del suo tempo. Senza accorgercene oggi crediamo ciecamente, come folla, in una nuova religione, quella del mercato che, dalla fine degli anni ’70, è diventato un mercato senza regole. Strane divinità hanno sostituito le antiche, con nuove liturgie, insoliti riti e omelie. La scuola laica, sulla carta, semplicemente asservita a questi nuovi idoli e poteri e ridotta a puro istruzionismo, prepara di fatto l’uomo anonimo della folla o della massa a non avere un’anima (pardon, una mente): vale solo per ciò che produce e consuma. A pensare per lui si occupano i pochi che detengono il potere economico e politico. 

Ma l’uomo non è una macchina, né l’elemento anonimo di una folla o massa più o meno informe.  L’essere umano del secolo XXI deve quindi finalmente scoprirsi per quello che è e cioè per il suo valore (che non è quello che vorrebbero assegnargli i grandi sacerdoti del pensiero unico), che è dato dalla sua unicità, dal suo diritto a vivere pienamente e liberamente la sua vita e che sappia tagliare (finalmente!), i fili di chi lo vede come una sorta di burattino di legno da far agire a piacimento. Il bambino in crescita deve conoscere se stesso ed essere messo in condizione di riconoscersi come corpo, sensazione, emozioni, ragione, desideri e sogni. Al conoscere se stessi, occorre sempre aggiungere con gli altri. Quello umano è, infatti, un essere sociale che ha un bisogno vitale degli altri, cioè di stare in mezzo agli altri e di quello scambio, che si sviluppa con il linguaggio, che dà contenuti ai pensieri e che si traduce in significati e simboli. È attraverso gli altri che l’individuo scopre l’indispensabilità delle relazioni e di quell’ABC che coincide col fatto che lo spazio della sua libertà, da proteggere e difendere, ha confine nella libertà degli altri. 

Deve imparare che questo ABC si traduce in democrazia e che è la democrazia in cui vive che deve migliorare, anche con il suo contributo, ma che la democrazia è fragile e da sempre insidiata dalle tirannidi e dalle tentazioni oligarchiche. Egli deve quindi apprendere a difendere la sua libertà senza curarsi delle sirene di chi, per gli interessi suoi e delle sue consorterie, vorrebbe che sì piegasse ai suoi voleri. Pur con tutti i suoi limiti, il libro di Le Bon, per certi versi profetico, non soltanto ha anticipato le crisi e i tragici sconquassi del ‘900, ma sembra quasi uno specchio del tempo presente, tra folle o masse, gestite da poteri economici e politici e poco inclini al ragionamento (chi insegna ad argomentare, ascoltare, riflettere, a coltivare ideali?) e preda delle facili suggestioni dei demagoghi di turno. Le folle/masse spesso ignorano di dover essere loro a poter e a dover gestire i propri interessi che i nuovi-antichi poteri forti, che coincidono con i potentati economici e finanziari, cercano di sfilargli da sotto il naso sottoforma di restringimento di diritti con l’illusione di aprire strade, in realtà vicoli ciechi, o con paure create ad arte per impedire l’esercizio del pensiero (chi ha paura pensa solo a fuggire da ciò che lo spaventa). Al grido, spesso insensato, di libertà libertà le folle, altrettanto spesso, finiscono per intrupparsi in totalitarismi che ne annichiliscono ogni pretesa, ma che gli fanno apparire cosa buona il comando, anche tragico, di qualche potere spietato e corrotto. 

La storia è una severa maestra. Credo opportuno riportare, a tal proposito, la riflessione del filologo W. Jaeger () sulla fine della prima democrazia, quella di Atene: “Soltanto dopo la catastrofe di Cheronea, in cui l’esercito macedone, guidato da Filippo, sconfisse Atene e i suoi alleati, nel 338 a.c., vediamo farsi strada il concetto che lo stato ateniese debba compenetrarsi dell’ideale della paideia di una cultura sua, corrispondente al suo spirito”.

Ritorniamo a interrogarci anche noi sull’ideale di paideia (parola greca che, nel significato originario, corrispondeva proprio a educazione) da trasmettere ai nostri figli e ai contenuti  da condividere prima di ritornare sotto qualche tallone di ferro. Scuola, famiglia, quartieri, città, mondo devono diventare una comunità educante (vero, nuovo villaggio globale), concordemente impegnata a far crescere una persona sana, raziocinante e consapevole. 

Sarebbe la fine del regno della massa e della folla e l’inizio della democrazia della persona, autenticamente libera e responsabile, della solidarietà e della cura.

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