
#salute
Di Andrea Luccioli
In foto: L’Ospedale di Foligno
Fateci caso, da quanto tempo non ascoltate – anche per sbaglio – un ragionamento o una proposta politica articolata circa il Sistema Sanitario Nazionale? Il dibattito nel recente passato, anche su scala regionale e tralasciando gli aspetti strettamente connessi all’emergenza Covid, si è infatti focalizzato solo su liste d’attesa infinite (giusto), intramoenia sì o intramoenia no, spettri di privatizzazione (neanche troppo velati) e riorganizzazione delle strutture sanitarie territoriali (solitamente orientate alla riduzione delle stesse). Nient’altro. Nessuno che vada più in profondità e analizzi la complessità del mondo sanitario cercando di capire se il sistema funziona o meno e se, soprattutto, il livello delle prestazioni mediche erogate sia a misura di paziente e dei suoi cari.
Questa premessa serve per introdurre l’altro grande interrogativo che mi sono posto in questi mesi avendo avuto a che fare con il SSN: il modello di gestione delle strutture sanitarie in chiave “turboaziendalista” (per citare un filosofo contemporaneo à la page) è veramente il migliore possibile?
Anticipo la mia personale risposta: no. A prescindere da questo e alla luce delle grandi criticità emerse a causa della pandemia, aprire un confronto e un dibattito serio sul tema non solo è necessario, ma anche urgente visto che siamo praticamente già entrati nella campagna elettorale che ci porterà alle elezioni politiche del 2023 (o forse prima).
Piccola introduzione. L’attuale SSN è figlio di uno dei momenti più bui della nostra storia recente, gli anni ’90, le grandi tangenti, gli scandali ministeriali con milioni di lire infilati nei divani e via dicendo. Da lì arrivano le Aziende sanitarie, le Regioni virtuose che diventano benchmark perché capaci di garantire LEA (livelli essenziali di assistenza) spendendo “il giusto” e gli ospedali gestiti in base al fatturato da quelli che spesso non sono altro che ragionieri della salute (nostra) e il cui mantra è uno: far tornare i conti, a tutti i costi. Da quando il criterio economico delle prestazioni sanitarie è diventato l’unico credo di direttori amministrativi e sanitari, la nostra Sanità ha cambiato pelle. I conti sono migliorati (anche qui ci sarebbe da dire), ma a che prezzo? Prima di parlare di un dato esemplificativo della situazione Italiana al riguardo, racconto in breve alcuni episodi che stanno alla base di questi miei ragionamenti.
Come dicevo, in queste settimane mi è capitato di avere a che fare con il Sistema sanitario nazionale (SSN) nella sua declinazione locale e al termine di questo breve viaggio tra ospedali, anagrafi sanitarie, fogli di dimissioni dalla degenza e via dicendo, le criticità del complesso mondo della Sanità mi sono apparse chiarissime.
Con i miei occhi ho assistito a pazienti dimessi esattamente il giorno previsto dagli standard aziendali evitando di menzionare complicazioni emerse che avrebbero allungato la degenza, gestioni dei pazienti “forzate” a certe pratiche a causa della mancanza di personale dislocato magari altrove (anche a causa del Covid), scelte mediche discutibili sul piano del singolo caso ma guarda caso perfettamente aderenti ai range previsti dalle tabelle generali. E ancora. Pazienti oncologici costretti a rimandare terapie vitali (sì, vitali) per l’emergenza pandemica, una situazione questa “accettabile” nei primi mesi del 2020, ma ora indice di un grave deficit di personale medico, sanitario e strutturale.
Infine, insieme alla mia compagna, abbiamo dovuto scontrarci con gli assurdi protocolli sanitari per le partorienti che non prevedono, se non per piccoli frangenti temporali, la presenza e l’assistenza del padre alla madre durante la nascita dei bambini. Su questo tema, assurdo se consideriamo che in alcune strutture sanitarie i genitori vengono addirittura “ricoverati” insieme per alcuni giorni così da vivere insieme questo momento irripetibile, abbiamo portato avanti una battaglia anche mediatica che si è concretizzata nei giorni scorsi in un interpello direttamente al Ministero della Sanità.
Tutti questi episodi, al netto della pandemia, sono l’evidenza del problema di cui ho parlato all’inizio: la gestione strettamente aziendale della nostra salute. Ricordo ancora quando qualche anno fa, in televisione, ascoltai un dirigente ospedaliero umbro bearsi del “fatturato” della sua Azienda ospedaliera.
Questo concentrarsi sui numeri, riducendo l’assistenza ai cittadini a una somma di entrate e uscite economiche, mi accese una lampadina che, in questi giorni, si è manifestata concretamente in tutta la sua cinica forma contabile.
Siamo di fronte a un’aberrazione a parer mio.
La performance sanitaria in senso stretto dovrebbe avere parametri altri e molto più umani, ovviamente sempre nell’ottica di offrire un servizio senza sprechi e malversazioni. Invece negli ultimi 20-25 anni abbiamo assisto impassibili alla trasformazione degli ospedali in imprese valutate in base al fatturato e al costante depauperamento delle risorse investite nella medicina.
C’è un dato che chiarisce la situazione: nonostante gli ingenti stanziamenti per far fronte alla pandemia, nel 2020 il gap tra la spesa sanitaria pubblica italiana e quella dei 14 paesi dell’Europa Occidentale ha raggiunto circa il 40%. È quanto sostiene il XVII Rapporto del Crea (Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità) dell’Università Tor Vergata di Roma.
Il quadro, alla luce di quanto emerso finora, è allarmante. Motivo per cui credo sia arrivato il tempo di chiedere risposte a chi la Sanità la gestisce e a chi, una volta al Governo del Paese, potrà riorganizzarla. Si spera in meglio