
#scuola
Di Miriam Abu Eideh
In foto: Miriam e la sua classe
Vengo da una famiglia piena di insegnanti. Mia madre e mia zia Marizia (contrazione affettuosa familiare di Maria Letizia) hanno insegnato per una vita alle scuole medie, lettere. Mia zia Elvira educazione tecnica, mio zio Edoardo (detto Titti) storia e filosofia alle superiori e, in seguito, filosofia all’università. Sono cresciuta circondata da insegnanti, ascoltando continuamente discorsi sul tale scrutinio e sulla talaltra riunione.
Ricordo i racconti terrorizzati della zia Elvira riguardo a una preside terribile, tale Preside Tempia, la quale all’entrata misurava la sottana alle insegnanti e le cacciava a casa a cambiarsi se l’abbigliamento non la soddisfaceva. Una volta la Preside Tempia l’aveva anche fatta piangere, perché l’aveva rimproverata in corridoio: come osava presentarsi in una scuola con degli stivali col tacco?
Ricordo di quando la zia Marizia raccontava delle sue supplenze in un paesino di montagna: la pluriclasse, gli interminabili viaggi in vespa, il non poter tornare a casa per via della neve, il bidello che bussava per portarle la legna con la quale scaldarsi nella sua stanzetta adiacente alla classe dove faceva lezione.
Ricordo i racconti sul primo incarico di mio zio Edoardo in una scuola femminile, nella quale tutte erano un po’ innamorate di questo professorino giovane giovane. Mia zia Elvira è stata sua allieva e per tutta la vita lo ha chiamato professore e gli ha dato del lei, nonostante fossero parenti.
Ricordo mia madre passare serate intere a correggere temi, senza venire neanche a cena. Ricordo le visite della sua alunna Paoletta, che lei aveva seguito come insegnante di sostegno.
Nella mia fantasia di ragazzina il Provveditorato mi sembrava un terribile luogo di tortura, la Graduatoria un girone dantesco dal quale scappare a gambe levate, il Punteggio una terribile condanna.
Durante la fase di ribellione adolescenziale, circondata com’ero da tutti questi professori, mi sono data un unico imperativo categorico: Miriam fai quello che vuoi, da grande, ma MAI l’insegnante.
E invece…
Qualche giorno fa mi sono resa conto del fatto che la mia carriera da docente sta per diventare maggiorenne e mi sono quasi commossa. Insegno da 17 anni, da 17 anni faccio il lavoro che mi ero ripromessa di non fare MAI. Potessi tornare indietro, lo rifarei ancora e ancora.
La scuola è un grande, smisurato carrozzone. Chiunque arrivi ad amministrarla, tranne rarissime eccezioni, non sa assolutamente niente delle esigenze e dei problemi di docenti, studentesse, studenti, personale ATA. Ogni ministro è peggiore di quello precedente, ogni riforma è peggiorativa rispetto a quella precedente e sembra improntata all’esclusiva esigenza del risparmio. Ogni tanto nascono e muoiono indirizzi di studio, si liceizza questo o quello, materie vengono prima inserite in un curricolo poi tolte a caso, reinserite in un curricolo diverso e ritolte a caso. Si introduce l’alternanza scuola lavoro, poi le si cambia nome. Si riforma l’esame di maturità un anno sì e l’altro pure: tutti i commissari siano interni, no via tutti esterni, no dai metà interni e metà esterni, no di nuovo tutti interni; le maturande e i maturandi producano una tesina multidisciplinare, no niente più tesina scelgano tra tre buste, no niente buste inizino il colloquio con un’immagine.
Si ha proprio l’impressione di un navigare schizofrenico, di una mancanza totale di prospettiva in un settore, quello dell’istruzione, che dovrebbe essere prioritario, vitale, cruciale per un Paese che non voglia appassire e seccarsi come una pianta alla quale non viene data l’acqua. Man mano che gli anni passano aumenta la burocrazia e l’avvento del digitale, invece che snellirla, ha finito per raddoppiare le incombenze: prima determinati documenti dovevi fornirli in formato cartaceo, adesso in formato elettronico e ANCHE cartaceo, con buon pace della lotta contro la deforestazione e con buona pace del Ministero per la Semplificazione (che neanche so se esista più).
Eppure…
Eppure insegnare rimane uno dei mestieri più difficili ma anche più belli, più appaganti, più rigeneranti che esistano.
E’ un mestiere difficile perché presuppone un continuo mettersi in discussione, un continuo schierarsi e prendere posizione anche in situazioni spiacevoli o scomode, un continuo cambiare e aggiornarsi secondo le classi che di volta in volta incontri, alcune delle quali possono essere difficili, recalcitranti, chiuse a riccio nei confronti del docente, una continua opera di mediazione con le colleghe e i colleghi, un continuo fare i conti con il coinvolgimento emotivo e la stanchezza mentale che ne consegue. Certamente, se il mestiere di insegnare si affronta come un semplice travaso di nozioni dalla testa dei docenti a quella dei discenti, l’insegnamento perde molto della sua attrattiva e diventa un lavoro arido come ce ne sono tanti. Penso che molto dell’astio che oggi troviamo nei confronti della categoria docente provenga non solo da una conoscenza superficiale di quelle che sono le fatiche di chi lavora a scuola ma anche dalla presenza, nella scuola, di molte colleghe e molti colleghi che vivono il loro lavoro come una serie di monologhi cattedratici su questo o su quello e una serie di scadenze burocratiche da rispettare. Colleghe e colleghi che preferiscono non coinvolgersi, non desiderano esporsi, non fanno uno sciopero che sia uno, rimangono anonimi e insulsi o, al contrario, cercano in una sovraesposizione spasmodica attraverso progetti e progettini chissà quale rivincita, chissà quale scalata al potere.
Se, però, l’insegnante non è un semplice trasmettitore di fatti, concetti e numeri o un mero burocrate e non concepisce la scuola come un trampolino di lancio per lanciarsi non si sa bene dove, ma è educatore, se trasmette valori forti, se si mostra per quello che è con trasparenza, se non si volta dall’altra parte di fronte ai problemi e alle richieste di aiuto, se riesce a intessere delle relazioni che siano positive, significative, appaganti con le sue classi, se riesce a vivere la scuola come una comunità di apprendimento nella quale crescere assieme in modo giocoso, fare esperienze assieme, scambiarsi emozioni positive, se riesce a far abbandonare ad allieve e ad allievi la fissazione per il voto trasmettendo, invece, l’amore per le proprie discipline, facendole vivere come un bellissimo viaggio alla scoperta di tante cose nuove e belle da conoscere allora non potrà non svegliarsi ogni giorno felice di andare a scuola.
Nonostante i problemi, la fatica, le arrabbiature e la pseudoriforma di turno.